domenica 8 luglio 2018

L'elogio della debolezza

Nel precedente post ho trascritto alcuni brani dell'arte di essere fragili... continuo con queste riflessioni andando a ripescare un libretto comprato circa quindici anni fa mentre mi trovavo al Santuario francescano della Averna. Ero andato per un ritiro e dopo un lungo peregrinare solitario sono entrato nella libreria antistante la chiesa. In silenzio, cercando un ispirazione per la mia riflessione. Mi sono imbattuto in questo libretto dal titolo intrigante: "ELOGIO DELLA DEBOLEZZA" di Alexandre Jollien.
Sul retro di copertina la frase:
"- Sentirti debitore verso gli altri non ti amareggia? 
- Al contrario. 
Penso che si tratta di una ricchezza...
 Al cuore della mia debolezza posso apprezzare il dono
 della presenza dell'altro 
e a mia volta cerco di offrire agli altri
la mia umile e fragile presenza con i mezzi di cui dispongo".
Mi è bastato questo per comprarlo e leggerlo e rileggerlo a distanza di tempo. L'autore - un filosofo disabile cresciuto da ragazzo in un istituto immagina di dialogare con Socrate e di rileggere la sua esperienza.
"l'individuo debole non rappresenta necessariamente un peso per l'altro. Ognuno dispone liberamente della propria debolezza: è pienamente libero di usarne saggiamente... Assumere fino in fondo la propria debolezza rimane una lotta ad ogni istante".
Un insegnamento profondo che arriva non da dotte riflessioni ma da incontri umani. Ci salvano i ragazzi più in difficoltà. Non c'è dubbio. a lui come a noi.
Trascrivo una pagina emblematica del libro e della vita dell'autore che ci dice tanto su cosa stabilisce il valore di una persona, andrebbe letta e riletta ogni volta che vogliamo riflettere su cosa significa essere uomini:
"ALEXANDRE: Spesso la sera smarrito nei miei pensieri, invidiavo la sorte degli altri bambini: dormivano a casa propria, condividendo piacevoli momenti in famiglia. Io invece me ne stavo la, solo senza sicurezze. Una luce fioca illuminava i dormitorio silenzioso, occupato da personaggi curiosi: un nano, che dormiva con i pugni chiusi, un muto che non parlava  ma non per questo rinunciava a russare sonoramente; di fronte Jeromè, dallo sguardo profondo, che mi osservava attentamente. Una volta, con sforzo sovrumano e voce spenta, mi lanciò un "comme tai?"
L'idea che Jeromè, paralizzato in fondo al letto, si inquietasse per le mie infime preoccupazioni mi sconvolge ancora oggi. Non mi aveva fatto discorsi di coraggio, sulla necessita di pensare positivo come propone la letteratura edificante, ma con parole semplici - "Comme tai? - aveva detto tutto. Il suo sostegno era totale.
Si ha sempre di più la tendenza a escludere il diverso, l'inutile, lo straniero, l'altro... Jerome non poteva fare nulla fisicamente. Dopo aver valutato le sue potenzialità, lo qualificavano tranquillamente come "non redditizio". Eppure mi ha insegnato, meglio di chiunque altro il "duro mestiere di uomo".
SOCRATE: Cosa intendi esattamente con questa espressione?
ALEXANDRE: " Al Centro , prendevamo rapidamente coscienza del fatto che non ci sono mai acquisizioni definitive nella vita. Ogni giorno dovevamo rimetterci all'opera, risolvere le difficoltà, una a una, assumere la nostra condizione, restare in piedi. Ecco il nostro lavoro, la nostra autentica vocazione, quello che io chiamo il mestiere di uomo".
Dedicato a tutti i nostri ragazzi in difficoltà spesso considerati "non redditizi"... e a tutti gli apprendisti uomo che conosco...