domenica 18 settembre 2016

Quel dolore dentro di noi

Vittorino Andreoli Ha scritto:
Uno psichiatra che meriti questo nome è un uomo che soffre, se conoscete uno psichiatra che non soffre evitatelo totalmente, perché non è possibile capire il dolore senza essere parte del dolore degli altri”. I linguaggi del dolore sono le lacrime, il grido, il silenzio... tre elementi che mancano nel nostro tempo, di cui ci vergogniamo e che lo stesso Cristo nel Vangelo ha utilizzato".

“Ci sono due modalità diverse di affrontare il dolore: il dolore con la speranza e il dolore senza speranza... la speranza è una terapia del dolore... c'è una sola risposta, ed è quella della condivisione, quella di dire: io sono con te per soffrire, sono qui per condividere il tuo dolore; è inutile predicare che cos'è la gioia a uno che vede solo dolore. Bisogna dare un senso al dolore e ha senso se io lo condivido con te, perchè io stesso divento dolore.”

“Noi abbiamo dei recettori verso il mistero, verso qualcosa che ci sfugge... quel qualcosa che attrae e nello stesso tempo spaventa, questo è il mistero. Il mistero è qualcosa che si intuisce ma non si chiarisce sufficientemente. Ecco, c'è questa prima tappa del credere e qui c'è la speranza, la speranza nell'uomo. Guardate che l'uomo può fare molto per l'altro uomo.”

Vittorino Andreoli ha detto che non si può essere un buono psichiatra senza sentire il dolore dell'altro. Io credo che non si può nemmeno essere un buon educatore, un buon psicologo, un buon salesiano, un essere umano veramente tale, senza sentire cosa provano i ragazzi e le persone con cui entriamo in relazione. Sentire il dolore dell'altro e la rabbia dell'altro, una rabbia spesso inespressa o esplosiva. Una rabbia che a volte diventa imprecazione e/o preghiera: "Perchè Signore? Non è giusto! Non è possibile che a questo ragazzo, a questa famiglia debba capitare tutto ciò!".  Spesso è un grido strozzato in gola che rimane senza risposta...

Poi Andreoli, che si dichiara ateo continua: 
“Questo è il punto fondamentale: date speranza, voi che invidiabilmente siete stati visitati a casa vostra dal Padre eterno, date la speranza. E questa speranza datela prima come uomini, poi capiranno che siete anche cristiani”. 
E capisco che spesso quel prendermela con Dio è l'inizio, necessario, di un dialogo nel quale prende corpo la consapevolezza che Lui continua ad amarci così come siamo e che conosce il patire perché ne ha fatto esperienza diretta piangendo, gridando e, infine tacendo, proprio come noi.

Alzo lo sguardo, sopra il PC sulla bacheca di sughero, da tanti anni ho un immaginetta ormai sbiadita
ma che non cambio mai: "Quando la tua speranza è finita, confida in Dio e avrai una speranza senza fine." 

Non ho la risposta al dolore delle persone che incontro e in particolare ancora non sopporto quello dei ragazzi nonostante tanti anni con loro. Però ho capito che posso stare, senza scappare, nella relazione con chi è nel dolore e con chi è nella gioia, per camminare insieme... a volte è poco, a volte ci si accontenta, a volte è sufficiente... camminare insieme... magari in silenzio...

sabato 3 settembre 2016

Quel "lupo della steppa" dentro di me

Nel mio percorso di apprendista uomo i libri e, tra  questi, i classici, a volte mi aiutano a riflettere e a confrontare le mie esperienze con quelle di personaggi creati ad arte per esprimere delle situazioni tipiche. Mi piace confrontarmi con loro per capire cosa mi corrisponde e perché.
Così questa estate ho ripreso anche un libro  letto a venti anni e poi rimasto in libreria. Un classico di Hesse di cui in quel periodo della mia vita credo di aver letto quasi tutto.
 
Il lupo nella steppa: un libro  che parla di un uomo a ridosso dei suoi cinquant'anni (io quest'anno appunto ne ho compiuti 48....). Un uomo in crisi nel tentativo di leggere il suo tempo con la modernità che incalza e che a volte è poco comprensibile o sembra superflua. Che tenta di  starci dentro con fallimenti e successi e nello stesso tempo deve cercare dentro di sé la voglia di vivere e progettare ancora facendo sintesi tra tanti aspetti diversi della propria molteplice personalità.
Uomo-lupo, spirito-corpo, ragione-istinto. Dualismi che si ripetono senza tempo nella vita di ciascuno alla disperata (ma non senza speranza!) ricerca di una sintesi.
Come non rispecchiarsi in alcune sue riflessioni, capace  di toccare  il cielo con un dito e poi di sprofondare sotto terra?

Su tutto emerge la capacità di ridere di sé stessi, l'umorismo, come strada per accettarsi senza distruggersi e senza cadere in sterili sensi di colpa ogni volta che si ricade nei propri limiti.
 
“Soltanto l'umorismo (la trovata forse più singolare e più geniale dell'umanità) compie l'impossibile, illumina e vince tutte le zone della natura umana alle irradiazioni dei suoi prismi. Vivere nel mondo come non fosse il mondo, rispettare la legge e stare tuttavia al di sopra della legge, possedere come se non si possedesse, rinunciare come se non fosse rinuncia: tutte queste esigenze d'un alta saggezza di vita si possono realizzare unicamente con l'umorismo”.

“tutta la vita è così, caro mio, e bisogna prenderla com'è; e chi non è asino ci ride. La gente come lei non ha diritto di criticare la radio o la vita. Impari prima ad ascoltare! Impari a predere sul serio quel che merita di essere preso sul serio, e a ridere del rimanente!... dovrà dunque abituarsi ad ascoltare ancora la radio della vita. Le farà bene.... Lei deve imparare a ridere, questo è richiesto. Deve comprendere l'umorismo della vita.”

 Mi sembra importante comprendere che mentre cerco di camminare e di migliorarmi posso migliorare anche la capacità di ridere di me stesso  e di alcune situazioni che si ripetono senza tempo, senza indugiare troppo ma anche senza drammatizzare troppo...

E' bello vedere che emerge nell'uomo, nel suo intimo più profondo una continua domanda di senso  e di ricerca del senso ultimo della vita.
“Chi leggeva al di sopra del Reno la scrittura delle nubi e delle nebbie migranti? Il lupo della steppa. E chi cercava al di sopra delle macerie della vita il senso svavillante, soffriva le cose apparentemente insensate, viveva le apparenti pazzie e, nel caos sconvolto, sperava segretamente la rivelazione e la vicinanza di Dio?”

“l'uomo non è una forma fissa e permanente (questo fu nonostante le intuizioni contrarie dei suoi sapienti, ideali dell'antichità), ma è invece un tentativo, una transizione, un ponte stretto e pericoloso fra la natura e lo spirito. Verso lo spirito, verso Dio lo spinge il suo intimo destino; a ritroso, verso la Natura, verso la Madre lo trae la sua intima nostalgia: tra l'una e l'altra di queste forze oscilla la sua vita angosciata e tremante”.
 
“Ma di quel postulato suopremo che impone di aspirare a diventare uomo secondo lo spirito, di percorrere l'unica stretta via dell'immortalità, egli ha paura in fondo all'anima.... e non vuol rendersi conto che quel disperato attaccamento all'io, quel disperato rifiuto di morire è la via più sicura per arrivare alla morte eterna, mentre il saper morire, il saper spogliarsi e abbandonare l'io alle metamorfosi conduce all'immortalità”.

Riprendo il cammino sempre più convinto di dover morire a me  stesso per continuare a vivere e consapevole della  necessità (e del piacere) di dialogare con il "lupo della steppa" dentro di me, solitario e istintivo, a volte scorbutico, ma anche parte di  ciò che sono... devo  stare attento a non assecondarlo troppo ma, certe volte, devo ascoltarlo di più. L'istinto a volte aiuta a cogliere  aspetti della realtà che sfuggono

al ragionamento.
E poi... un po' lupetto lo sarò sempre... chissà perché...